Cagliari, 10 apr 2010 (L'Unione Sarda) - Tanti e corrosivi, inevitabilmente profondi e sorprendenti. Gli irrocos e i frastimos - invettive con venature poetiche, parte di una letteratura minore e popolaresca che la lingua sarda ha custodito e proposto fino a tempi non troppo lontani - sono i protagonisti del libro di Raffaele Carboni Irrocos e frastimos, Edizioni Grafica del Parteolla, scritto con l'intento dichiarato di «tornare alle radici della lingua sarda».
Maledizioni rivolte contro le persone, gli irrocos e frastimos - avverte l'autore, sessantenne di Arbus cultore di tradizioni popolari, linguistica e poesia - non devono essere confuse con le bestemmie, le quali, normalmente, sono «invettive rivolte contro la divinità». Nella sua ricerca storica a caccia di malas novas e frastimos (ne ha trovato nella Bibbia, nell'Odissea e nell'Eneide), Carboni ha scoperto che la parola frastimu o frastimo (o ancora fastimo) non sembra essere molto antica: «Probabilmente deriva dal verbo catalano blastomar, bestemmiare, imprecare contro qualcuno o qualche cosa».
Più antico il termine irroco: «Secondo Wagner dovrebbe derivare dal latino medievale ex-orcare che deriverebbe a sua volta dal latino classico exorciso», sebbene la «radice più attendibile possa essere quella del verbo latino irrogare».
Le differenze. Pur essendo «semanticamente quasi dei sinonimi», irroco e frastimo «hanno acquisito nel tempo una leggera differenza». L'irroco è spesso un «componimento in versi», in genere - almeno i più noti - «formati da un'ottava, componimento in rima di otto versi». Se ne trovano anche formati da quartine o da più ottave. I frastimos sono invece «interiezioni o esclamazioni normalmente di una sola frase».
A imprecare, fino alla fine del XIX secolo era il frastimadore, «personaggio secondario nella comunità, una via di mezzo tra il veggente e il mago, o la strega», capace di sposare facoltà "divinatorie" con doti poetiche. L'incarico al frastimadore (conferito per «ritrovare oggetti smarriti o conoscere il rifugio di capi di bestiame sfuggiti dal recinto o forse rubati») non era mai a pagamento ma non gratuito: il compenso era costituito da generi alimentari.
Gli irrocos riproposti da Carboni sembrano ricalcare la forma delle poesie estemporanee sarde, «sia dal punto di vista della metrica che dell'armonia, tanto da far pensare che, insieme alle preghiere, fossero tramandati irrocos da utilizzare come modelli».
Quattro esempi, per capire. Il primo dedicato a un imbroglione: Ti insegua la giustizia gelida come la bianca neve/ Gli occhi con lo stimolo per i buoi ti cavino/ Contropelo ti spellino/ E solo dalla pelle staccata dal tuo corpo ti riconoscano. Il secondo è una quartina di origine contadina, intitolato "A te razza di scervellato": Vai in ora maledetta/ In ora maledetta vai/ La testa ti apra una scure/ Il cervello come le fave al sole. Il terzo è un irroco che ricorda l'invettiva di Cecco Angiolieri: Vai in malora/ Morto malamente ti ritrovino/ Che l'acqua che bevi ti possa affogare/ Che il fuoco ti bruci/ E che tutte le tue forze ti abbandonino. Il quarto ha il titolo inequivocabile, Unu malefitziu (Un maleficio): Che un fulmine ti colpisca/ Che tu possa prendere fuoco come carta/ Come i falò di maggio tu incenerisca/ Un falò per ogni pelo del corpo.
Numerosi frastimos proposti «vengono usati come espressioni verbali, quasi un intercalare, o in una forma di saluto esorcizzante». Non auspicavano esplicitamente «la morte del nemico, almeno non sempre, ma preconizzavano una dolorosa invalidante lesione di una parte specifica del corpo». Alcuni: Sos ojos nde catzes (Che ti saltino gli occhi fuori dalle orbite), Sas barras siccas (Che ti si secchino le guance), Sas manus cancaradas (Che ti si paralizzino le mani), Cancaradu sias (Che ti venga un colpo apoplettico).
Proposti anche paragoni e proverbi: Tontu che sa nappa (Tonto come la caligine), Surdu che pedra (Sordo come una pietra), Falsu che dinari malu (Falso come i soldi fasulli). Un glossario essenziale completa la ricerca.
PIETRO PICCIAU